Cognetti insegnami a capire la chiave dell’insuccesso

“… ed ho pensato che ognuno di noi è venuto al mondo con un nemico, e che da quel momento è destinato a perdere e poi perdere di nuovo, e che perciò tutte le vite meritano compassione. Se c’è qualcosa di buono, è che ogni vita perdente è una storia: e questa è la mia.”

Ho avuto la fortuna di ascoltare Paolo Cognetti dal vivo durante la serata finale del Pisa Book Festival, festival dell’editoria indipendente che si svolge ogni anno a Pisa, ed è stato amore dopo il primo intervento. Sono andata ad ascoltarlo perché immaginavo che ne valesse la pena, nonostante ancora non avessi letto niente, ed è andata meglio di come mi aspettassi. Non sto qui a scrivere di cosa abbia parlato quella sera, per chiunque fosse curioso il canale Youtube del festival ha caricato tutto il suo contributo su Youtube.

Oggi parlerò della prima opera che ho deciso di leggere di questo autore, ho letto una raccolta di racconti che è intitolata “Manuale per ragazze di successo”, edita da Minimum Fax. Ho scelto questo titolo perché avevo intuito che ci fosse qualcosa dietro questa pretesa di dettare dei punti per arrivare al successo, prevedevo di trovare una buona dose di insuccesso nei sette racconti che compongono la raccolta, ed è dalla prima riga infatti che il mito del successo viene fatto precipitare, sullo sfondo della crisi degli anni 80 fino ad oggi.

Ho sempre letto in giro che Cognetti fosse particolarmente bravo ad analizzare e trattare l’universo femminile, quasi come lo vedesse dall’interno, io non credo molto nella differenza tra universo maschile e femminile, a parte questioni prettamente biologiche, e penso che Cognetti sia capace di analizzare l’animo umano in generale.

Questa sua capacità di parlare di situazioni semplici, di realtà umane inserite in un contesto storico ben preciso, lo rende sicuramente un grande osservatore. Osserva tramite delle realtà femminili, che devono combattere contro diversi tipi di crisi, il mondo che lo circonda. Come scenario di  alcuni racconti troviamo Milano, la Milano del boom economico e della crisi delle banche, Milano che passa da essere il centro del mondo pubblicitario a diventare il centro dei licenziamenti e dell’arrivismo ostinato. Il vecchio che viene sempre sostituito da qualcosa di nuovo.

Le donne delle raccolte sono tutte consapevoli della propria condizione di lotta, la maggior parte lotta contro il mondo del lavoro, altre con l’amore, l’oppressione e il peso della famiglia.

Così un amore finito dopo essersi consumato per molti anni, rimane in piedi per non rovinare una farsa familiare; il peso di due genitori “sessantottini” che hanno fatto carriera porta ad estreme conseguenze una classica ribellione adolescenziale; una gravidanza inaspettata arriverà in un periodo di successo lavorativo; ad un fallimento di carriera si aggiungerà un tradimento che non c’è stato neanche il tempo di prevedere; un’eredità porterà la paura di diventare come i nostri padri; un microcosmo autostradale rispecchierà qualcosa di più grande; quella ragazza adolescente affascinata dalla rivoluzione diventerà l’opposto di ciò che idolatrava.

Il centro di questi racconti è lo scontro con la realtà in generale, rappresentata dal mondo del lavoro, dalla società e dallo svanire dei sogni. In questo scontro con il mondo, non può mancare lo scontro-incontro con l’altro sesso.

Prima parlavo di quanto io non creda alla differenza di sentimenti tra uomini e donne, penso che Cognetti con questi racconti sia riuscito a dimostrare quanto uomini e donne alla fine siano uguali. Nei racconti compaiono degli uomini che all’interno del racconto sono più o meno presenti, a volte sono addirittura i protagonisti o narratori. Non c’è un tipo fisso, non c’è solo il succube o solo lo stronzo, nello stesso racconto la stessa persona smuove dentro il lettore diversi sentimenti, proprio come i protagonisti femminili. L’idea che arriva è quello di uno sfascio, chiunque entri a far parte di questi racconti ha qualcosa che è andato male nella proprio vita, se non tutto, e tutti reagiscono allo stesso mondo.

Trovatemi una persona che ad oggi, nel 2018, non abbia qualcosa nella propria vita che stia andando, o sia andata, male e poi ditemi che Cognetti non sia un bravo osservatore.

l’incontro tra una codarda e Undici Solitudini

Anche voi come me avete sempre snobbato le raccolte di racconti? Anche voi avete sempre preferito i santi mattoni che sono diventati dei classici a qualcosa di più contemporaneo? Forse è trovato una soluzione, almeno per me che partivo con tanti pregiudizi, pregiudizi verso la mia persona visto che ho sempre pensato di non aver abbastanza bagaglio culturale da poter capire opere vicine al mio periodo storico senza aver prima fatto indigestione di classici. Sapevo già da prima che fosse un’idea sbagliata e oggi ne ho avuto l’ennesima conferma. Ora, dopo il dovuto mea culpa, parlerò di un libro che ha preso spazio tra i primi posti della classica dei miei libri preferiti. Il libro in questione si chiama Undici Solitudini di Richard Yates, edito da Minimum Fax, tradotto da Maria Lucioni e con la prefazione di Paolo Cognetti. Dell’autore per ora posso dire poco, so solo che ha una dose di tristezza, cinismo, realismo, polemica e critica sociale che ha prodotto in me la voglia di leggere qualsiasi cosa abbia scritto in vita sua. I racconti sono undici come suggerisce il titolo, tutti con personaggi diversi e storie diverse, ma non troppo. Cosa lega la raccolta? Sarei banale se scrivessi che ogni racconto porta con se una diversa sfumatura di tristezza, sembra davvero che la tristezza venga declinata per ogni ambito della vita, per ogni età, sempre però all’interno di un unico periodo storico, tutto si svolge infatti nella seconda metà del 900 in America. Cosa porta con se un periodo storico simile? E cosa porta  alla mente l’America? Sarò  banale pure qui scrivendo che il sogno americano sta alla base di ogni racconto, forse è meglio parlare di benessere, che tipo di benessere? E’ sicuramente una raccolta che gira attorno al valore personale che si dà al concetto di “arrivare” e “realizzarsi” e che piano piano ne distrugge le basi, in ogni storia, mostrandone i punti deboli e i paradossi. Su cosa gioca la narrazione? Sul fatto che nulla sia certo, dalla trama alla psicologia dei personaggi, ma anche, e sopratutto, la psicologia del lettore che appena inizia un racconto prova empatia e subito dopo ha mille dubbi o cambia rotta. Le persone di cui si raccontano le storie sono persone semplici, i racconti si svolgono all’interno di percorsi lavorativi o di ambienti familiari, i protagonisti sono soli, soli non in mancanza di compagnia fisica, soli in quanto isolati dal resto delle persone che a loro volta però sono sole a modo loro. Il mondo disegnato è composto da tanti piccoli egoisti che si incontrano, magari all’inizio sembra che il protagonista sia un eroe ma poi si rivela anche lui pronto a fare del “bene” solo per un secondo fine. Così una maestra che tenta a tutti i costi di essere comprensiva si renderà conto che non per forza la negligenza scolastica è l’effetto di un brutto passato, dei soldati semplici metteranno in dubbio l’odio provato verso un uomo che forse era solo troppo dedito alla sua causa e non per questo disumano, e tu, a chi daresti la colpa di un matrimonio che fallisce prima ancora di iniziare se un po’ di colpa l’hanno entrambi? Io posso capire una donna che ha l’amante mentre il marito è chiuso da anni in ospedale e vive nel suo microcosmo, posso capirla e al contempo non accettare quello che fa, tu riusciresti a prendere una posizione netta? Probabilmente tu si, perché sei un altro lettore, io non ci sono riuscita ed è per questo che questi racconti, narrati in modo così disperato, mi hanno lasciato spesso spiazzata e non sapevo davvero che parte prendere. Di questi e di altri personaggi parla questa raccolta, personaggi simili e sopratutto deboli, debolezza che però non ti impedisce di odiarli; nella prima riga puoi provare pena per loro e nella terza puoi passare direttamente all’odio. In questo mare di incertezze, solo un racconto mi ha fatto stare totalmente dalla parte del protagonista, forse perché il tipo di crudeltà e violenza che giustifico di più, da buona codarda, è la violenza nei confronti di se stessi. Il racconto si chiama “Una gran voglia di punizione”, parla di un uomo che ha la capacità di farsi trasportare dagli eventi e ama prevedere la catastrofe senza minimamente contrastarla, lascia che le cose vadano da sole e se vanno male non è un gran problema, tanto lo aveva previsto. Parla di quegli esseri umani che vivono il proprio fallimento come se fosse un’opera teatrale alla quale assistere in prima fila, avevo ragione quando ho scritto che mi piace perché sono una grande codarda? Siete liberi di chiamarmi così, ma odiare lui sarebbe come ammettere di odiare qualcosa che mi sta vicino. Dopo questo inserto egocentrico vi lascio ad una citazione di questo racconto, tanto per farvi capire il tono e la portata di questo scrittore.

 

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